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Un’alleanza che dà voce ai pazienti

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Un’alleanza che dà voce ai pazienti

Il mondo delle associazioni dei pazienti ha una forte consuetudine di dialogo con l’industria, che spesso ne supporta il ruolo attivo verso i pazienti e verso le istituzioni nel promuovere adeguate politiche assistenziali.

Secondo Teresa Petrangolini, che è direttore del Patient Advocacy Lab dell’Alta scuola di management dei sistemi sanitari (Altems) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore ed esperto facilitatore della partecipazione dei cittadini, questo è normale in un Paese in cui le associazioni di advocacy non possono contare su un sostegno economico o progettuale dalla parte pubblica.

A lei abbiamo chiesto come il rapporto fra industria e associazioni dei pazienti possa essere reso più fluido ed efficace.

Quali esigenze emergono dalle associazioni dei pazienti in merito al dialogo con il mondo dell’industria del farmaco?

Il rapporto fra industria e associazioni è cresciuto considerevolmente negli ultimi anni ma deve fondarsi su un insieme di buone pratiche. In primo luogo, le aziende dovrebbero instaurare una relazione meno occasionale con le associazioni.

Occorre superare quell’approccio esclusivamente strumentale che per esempio vede le aziende rivolgersi al mondo associativo quando emerge un ostacolo sull’iter registrativo di un farmaco: problemi rispetto a cui è naturale allearsi, ma che non sono una base sufficiente.

Tanto più che una parte del mondo pharma già è orientato a un rapporto più continuativo e ha inserito nel proprio assetto organizzativo un polo stabilmente dedicato al rapporto con le associazioni dei pazienti, con investimenti e risorse umane che operano nella patient advocacy.

Questo è l’approccio più proficuo per entrambi gli attori: anche per l’industria, infatti, è importante ascoltare la voce dei pazienti, imprescindibile per portare innovazione nella sanità e negli aspetti di accesso alle cure. All’esigenza di creare un dialogo più stabile si collega il secondo aspetto: ormai le associazioni sono interessate ad avviare programmi a medio termine.

La collaborazione con l’industria deve andare oltre al supporto, pur lodevole, all’iniziativa isolata, per costruire una vera e propria strategia a sostegno di una certa categoria di pazienti.

A questo scopo si rende necessario lavorare su diversi fronti strategici per un’azione più articolata, dall’avviare indagini per comprendere meglio il vissuto di una certa patologia, al raccogliere intorno a un progetto clinici e ricercatori su quella patologia, magari attraverso corsi e convegni, all’erogare corsi di formazione per le associazioni stesse o per le professioni sanitarie che ruotano intorno a quei pazienti, alle iniziative rivolte ai familiari e ai caregiver ecc.

È un approccio che necessita di continuità ma è fondamentale per creare da un lato la cultura della patologia e dall’altro un terreno di relazioni in cui studi, informazioni e servizi ai pazienti crescano con un maggior coinvolgimento di tutti gli stakeholder.

Le associazioni stanno diventando un vero interlocutore delle istituzioni sanitarie, grazie alla loro natura disinteressata. Proprio l’indipendenza rende questi attori ottimi interlocutori per le aziende.

Infine, sempre in relazione alla continuità, eventuali finanziamenti alle associazioni non possono essere interrotti all’improvviso, senza concertazione: se, dopo tanto impegno profuso a creare un progetto, l’azienda cambia strategia e si ritira, il lavoro svolto rischia di andare sprecato.

Il rapporto con le associazioni di patient advocacy non può essere messo sullo stesso piano delle questioni di business ed essere passibile di fluttuazione a ogni cambio nel management: sono questioni sociali, ci sono di mezzo le persone, i malati, e di questo le aziende devono rendersi conto.

È dunque cruciale per l’industria investire sulla relazione con le associazioni dei pazienti. Su quali basi?

Partendo dall’ascolto della loro voce. Questa potrebbe essere una terza regola. Molto spesso le aziende cercano la collaborazione delle associazioni su propri progetti, già strutturati. Ma anche le associazioni hanno l’esigenza di essere supportate su proprie iniziative, che nascono dalle necessità dei pazienti. La collaborazione deve essere costruita su base maggiormente paritaria, un aspetto che è emerso con forza dalla mia esperienza di ascolto del mondo associativo.

C’è una sproporzione enorme fra l’industria, che ha mezzi economici e personale per raggiungere qualsiasi obiettivo si ponga, e le associazioni, fatte per lo più da volontari, praticamente senza risorse economiche e con tutte le fisiologiche difficoltà a definire una chiara strategia. Ma il loro apporto è prezioso, per questo le aziende dovrebbero agire per attenuare questo divario e accrescere questa voce.

In che modo è possibile, da entrambe le parti, costruire un rapporto tra aziende e associazioni meno sbilanciato?

Da parte delle associazioni e del mondo delle istituzioni serve innanzitutto abbandonare certi falsi moralismi. Ancora troppo spesso, nei rapporti con l’esterno e con le istituzioni, esiste una sorta di pregiudizio, se non addirittura di stigma, nei confronti del finanziamento proveniente dalle aziende. In realtà i finanziamenti non vanno alle associazioni, ma ai loro progetti, che non potrebbero essere avviati in mancanza di questi contributi economici. E non c’è nulla di male nell’utilizzare queste risorse, a patto che ci sia trasparenza.

Questo è l’elemento su cui fondare il rapporto, di cui vediamo esempi virtuosi in altri Paesi. È il principio di disclosure. Come facilitatore per il percorso partecipativo delle associazioni nella Regione Lazio, ho constatato che risulta molto utile chiedere alle associazioni che intendono attivarsi nel processo partecipativo di produrre una dichiarazione di disclosure in cui esplicitare da chi sono composti i loro organismi direttivi, se da pazienti, da medici o da persone di impresa.

Questo è servito molto, non solo all’istituzione per capire la natura degli interlocutori, ma anche alle associazioni stesse, per fare chiarezza al loro interno. Essere finanziati dalle aziende non è – e non deve essere – un problema, ma affinché diventi la normalità deve essere dichiarato con la massima trasparenza.

E da parte del mondo pharma?

Le aziende devono capire i rispettivi ruoli.  Per quanto succeda meno che in passato, ancora oggi c’è una sovrapposizione fra attività: talvolta le aziende si attivano in un ruolo che è più tipico di una associazione, relegando queste ultime a un ruolo passivo.

Se si intraprende una campagna, per esempio, o una indagine, o un progetto di formazione, è opportuno delegare un attore che abbia le competenze per farlo: università, consulenti, le stesse associazioni. L’industria non dovrebbe sostituirsi a soggetti più neutri. Corollario di questo approccio è essere disponibili alla collaborazione con altri attori, anche aziende.

È quello che avviene nel Patient Advocacy Lab di Altems, in cui costruiamo progetti con il supporto di diverse aziende che partecipano anche a iniziative che non ricadono nel loro campo di specializzazione. La collaborazione fra aziende è un momento di crescita per il mondo dell’industria e già molte aziende chiedono addirittura di non essere i soli attori industriali all’interno di un progetto. Questo è il modo migliore per costruire davvero la medicina partecipativa.

Essere attivi in un ambito anche non necessariamente correlato al gruppo di patologie che costituiscono la specializzazione di una certa azienda è una grande crescita culturale. Lavorare sui servizi, oltre che sul farmaco, è infatti la sfida dei sistemi sanitari, una frontiera dell’assistenza in cui l’industria pharma deve rivestire un ruolo attivo, perché oggi le aziende devono muoversi verso la società. Un aspetto che la pandemia ha messo in luce è che le aziende possono dare un contributo non solo alla crescita della sanità, ma del Paese.

In Italia, l’industria farmaceutica costituisce una forza produttiva tra le più evolute, ma è ancora difficile che venga considerata come parte del sistema sanitario. E per essere riconosciuti tali è necessario per questi attori una partecipazione che vada oltre le strette pertinenze del proprio business.

Il lavoro a fianco delle associazioni può migliorare la reputazione delle aziende presso i cittadini?

Un problema di reputazione esiste, e c’è sempre stato. Ma è in fondo un problema più culturale che pratico: i cittadini si fidano dei farmaci e dei farmaci “brandizzati”, tanto che i generici faticano ad affermarsi. Si sono fidati anche dei vaccini: i numeri parlano, la campagna vaccinale ha avuto una adesione elevatissima.

Ma abbiamo ereditato un sistema corruttivo molto forte, che ha lasciato un segno. Ho vissuto con Cittadinanzattiva i grandi processi della sanità corrotta e posso dire che, rispetto a 20-30 anni fa, la percezione di big pharma è molto migliorata.

E in questo solco è importante che l’industria continui a lavorare da attore virtuoso per supportare il sistema sanitario, per far capire che ha una attenzione all’interesse generale.

Su questo aspetto, le associazioni dei pazienti rappresentano un partner piuttosto maturo, che ha saputo liberarsi di certi pregiudizi e creare un terreno in cui collaborare, dimostrando che, pur con i limiti e i margini di miglioramento attuali, è possibile costruire reti assistenziali partecipate e realizzare il coinvolgimento del paziente nel sistema che lo va a curare affinché risulti a misura dei suoi bisogni.

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